Le Camere di Commercio e l'Unità d'Italia
Nel 1862 una legge provvide ad istituire e a disciplinare le Camere di Commercio ed Arti. La legge risentiva dei retaggi politici ed economici preunitari, di un apparato amministrativo statale ancora troppo fragile e dell’influenza dei modelli stranieri, come riportato nella storia dell’Unione italiana delle Camere di Commercio(1862-1994), edito dall’Unioncamere, con contributi di Alessandro Colombo, Paolo Colombo, Silvio Cotellessa, Giovanni Luigi Fontana, Leopoldo Magliaretta, Lorenzo Ornaghi, Gerardo Padulo, Giuseppe Paletta, Giorgio Roverato, Anna Veronelli, prefazione di Danilo Longhi e postfazione di Giulio Sapelli.
Con la nuova legge, le Camere di Commercio venivano a configurarsi come enti periferici di natura privata strettamente collegati all’amministrazione centrale. Esse potevano presentare al governo le informazioni e le proposte giudicate utili al traffico, alle arti e alle manifatture, avevano compiti di osservatorio nel settore e potevano esercitare funzioni consultive e di informazione. Le borse di commercio poi, erano alle dipendenze degli enti camerali. Un ulteriore compito - tra i molti ad esse attribuiti - era quello di provvedere all’istituzione o al mantenimento di scuole per l’insegnamento di scienze applicate al commercio e alle arti.
Le nuove Camere, chiamate a subentrare ai precedenti organismi, erano dotate di potestà regolamentare.
L’autonomia finanziaria delle CdC veniva garantita, oltre che con rendite proprie, anche mediante le possibilità di prelievo di diritti su certificati e altri atti emanati dalla camera, con una tassa speciale su assicurazioni marittime, polizze di carico, noleggi e altre contrattazioni commerciali della stessa natura.
La varietà delle tasse e dei sistemi di applicazione comportò, come prima conseguenza, una notevole differenza di reddito tra una Camera e l’altra; gli enti camerali, dal canto loro, si ponevano problemi intorno alle modalità di riscossione. La Camera vicentina, nel 1873, suggeriva alcune strategie: “Affinché le camere non siano rimesse all’arbitrio degli esattori che richieggono un aggio piuttosto esorbitante per la riscossione della tassa camerale, fa d’uopo che il governo provveda per urgenza con una legge, che imponga agli esattori di riscuotere esse tasse ai patti ed alle condizioni medesime, con cui esigono le pubbliche imposte, versando a scosso o non scosso nella cassa della camera alle scadenze stabilite”.
In quanto organismi di rappresentanza di interessi di categoria e istituzioni dotate di capacità impositiva (che denotava una valenza pubblicistica), le camere di Commercio erano portatrici, fin dalla nascita , di quell’ambiguità che avrebbe contrassegnato i successivi cinquant’anni della loro storia.
Tale circostanza influì in maniera decisiva anche sul primo periodo di vita dell’Unioncamere.
Tra le disposizioni contenute nella legge del 1862 vi era anche quella che attribuiva agli organismi camerali la possibilità di una loro convocazione in assemblea nazionale. I Congressi nazionali delle Camere, promossi su iniziativa del ministero o degli stessi enti camerali, rappresentarono gli unici momenti di tentato raccordo istituzionale tra le CdC dell’Italia post-unitaria.
I Congressi assunsero, in alcuni casi, la funzione di camera di compensazione dei contrastanti interessi regionali o di arena dove far prevalere le posizioni che, già di per sé, avevano una maggiore capacità di imporsi negli organi di governo centrale.
Nel 1867 il ministro convocò a raccolta per la prima volta le Camere a Firenze, dettando l’ordine del giorno, le modalità dei lavori e una prima bozza di strutturazione unitaria, che tuttavia non intendeva menomare l’autonomia d’azione concessa dalla legge del 1862. In quell’occasione si arrivò a caldeggiare la creazione di una commissione permanente incaricata di fare in modo che i Congressi delle Camere di Commercio potessero vivere di una vita propria, indipendenti da ingerenza diretta del governo.
Tale commissione doveva costituire un centro comune di tutte le Camere, nel quale discutervi d’interessi comuni a tutte le Camere di Commercio.
Il Congresso di Napoli del 1871 fornì l’occasione per riflettere sulla necessità di una maggiore rappresentatività delle Camere e di una funzionalità di ruolo di difficile definizione , in quanto ci si trovava in presenza di un decentramento di poteri contraddittorio e ambivalente.
Nel corso dell’ultimo congresso del secolo, Leopoldo Sabbatini mise all’ordine del giorno la “questione gravissima” del “controllo del governo sulle CdC”.
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